La Vita di Milarepa

Nuova edizione italiana della agiografia di Milarepa, il Capolavoro della letteratura tibetana del XV secolo.

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Note sull'Autrice

"Oggi è un buon giorno per cominciare, per continuare..."

VITA DI MILAREPA di Tsang nyön Heruka a cura di Carla Gianotti
pp. 388, Carocci, Le Frecce, Roma 2025.

Prefazione alla nuova edizione

A ogni latitudine, la ricerca spirituale degli esseri umani necessita di figure di orientamento – di andare a Oriente in senso prima di tutto simbolico – per venire a trovare quei luoghi interiori dall’identità più ampia, visioni eccedenti di bene e di vero, rispetto a quelli con cui solitamente ci identifichiamo nella vita ordinaria.

All’interno del buddhismo tibetano la Vita di Milarepa compilata da Tsang nyön Heruka alla fine del XV sec. è ormai considerata, da più di cinquecento anni a questa parte, opera straordinaria ‘di pianto e di riso’, capace di generare ispirazione per camminare sul Sentiero e di guidare là dove il bisogno irrinunciabile è quello di una felicità stabile e duratura per se stessi e tutti gli esseri dei sei stati di esistenza. La storia dello yogin Milarepa, lo yogin per antonomasia del Paese delle Nevi, il mistico che da sempre parla un linguaggio oltre i codici normativi del monastero, che sa scardinare e vanificare i giochi illusori del saṃsara, ci dice della possibilità tutta divina di diventare Buddha (o ‘risvegliato’ alla vera natura delle cose) in una sola vita e in un sol corpo. Ci dice cioè la storia tutta tibetana di un Buddha che non nacque in India, ma in Tibet – una storia di luce venuta in questo caso davvero da Oriente – che ha saputo camminare sino a noi per mostrarci, qui dove siamo, come distinguere la verità dell’ apparenza e la verità della realtà, entrambe.

E’ allora con particolare gioia che viene presentata nella Collana Le Frecce di Carocci Editore la nuova edizione de La Vita di Milarepa di Tsang nyön Heruka, un testo pubblicato quasi venticinque anni or sono a firma di chi scrive, e per due volte ristampato.1 Essa costituisce, allora come ora, la prima versione italiana completa condotta sull’originale tibetano, comprensiva cioè del lungo XII capitolo, che occupa poco meno di un quarto dell’intera biografia, e che risulta assente nelle attuali ritraduzioni in lingua italiana.2 Non sembra qui superfluo rilevare, in margine, come le diverse ritraduzioni italiane della Vita di Milarepa oggi in circolazione – ritraduzioni di versioni francesi o inglesi dei primi decenni del

Novecento della stessa opera compilata dal nostro autore, Tsang nyön Heruka – continuino in modo molto fuorviante a essere introdotte al lettore non quali traduzioni di un testo, quello di Heruka, della fine del XV sec, bensì quale opere del XII sec., assumendo la finzione propriamente letteraria della cornice dell’opera sapientemente costruita dall’autore – ovvero Milarepa che narra la storia della sua vita al discepolo del cuore Rechungpa – quale verità storica, millantando in tal modo una patente di antichità tutta mendace dell’opera stessa. L’errata collocazione cronologica dell’opera assunta da J. Bacot e da W. Y. Evans-Wentz – indotta dalle limitate conoscenze del buddhismo del Vajrayāna del periodo in cui i due grandi studiosi operarono e ormai rettificata da circa cinquant’anni a questa parte con il riconoscimento della figura storica di Tsang nyön Heruka – non è dunque più possibile venga oggi ignorata.

Questa nuova edizione della Vita di Milarepa presenta, rispetto alla precedente, un notevole ampliamento dell’apparato critico della Introduzione, alla luce dei più recenti studi tibetologici relativi alla vasta tradizione letteraria incentrata su Milarepa. Un’attenzione particolare è stata altresì dedicata alla figura di Tsang nyön Heruka, l’autore del nostro testo, il Folle visionario profondamente devoto a Milarepa, colui il quale seppe adoperarsi con ogni mezzo alla diffusione della biografia a tutti i livelli della società tibetana del tempo.

La traduzione del testo tibetano (condotta ancora una volta sull’edizione critica pubblicata da J.W. De Jong nel 1959), è stata completamente riveduta alla luce sia dei più recenti dizionari tibetano-inglese in formato elettronico oggi disponibili, sia delle conoscenze testuali sempre più precise e analitiche relative al buddhismo tibetano e in particolare alla tradizione della scuola Kagyu, cui appartengono Milarepa e il suo Maestro Lama Marpa.

Il volume si presenta corredato da tre Appendici relative al testo tibetano tradotto, alla datazione di Milarepa e alla tradizione biografica di Milarepa precedente Tsang nyön Heruka, che ci si auspica possano rappresentare agili strumenti per un primo approccio di studio a temi complessi relativi alla figura di Milarepa, ancora poco indagati se non a livello specialistico.

Allo stesso modo, per favorire la lettura del testo da parte di un largo pubblico, si è optato per l’indicazione dei termini tibetani secondo la trascrizione fonetica, con l’acclusione di una Tabella al termine del volume, dove sono elencate le corrispondenze tra fonetica e traslitterazione secondo il sistema Wylie, nonché tra termini sanscriti e tibetani di frequente iterati).

Da ultimo, il mio augurio è che la presente edizione della Vita di Milarepa di Tsang nyön Heruka possa, ancora una volta come già per la precedenti edizione, incontrare favore di pubblico e avvicinare in tal modo i lettori alle meraviglie del buddhismo tibetano, miniera infinita di tesori spirituali senza tempo.

1 Si veda Appendice I.
2 Ibidem.

Recensioni

LA LETTURA – IL CORRIERE DELLA SERA
01 Giugno 2025

E rinato Milarepa nostro santo peccatore
Il mistico buddhista tibetano ispirò letture e riletture, come quella del film di Liliana Cavani. Ecco la prima traduzione integrale della sua « Vita».

di SERGIO BASSO
Arriva la nuova edizione, radicalmente riveduta, dell’unica traduzione italiana completa – nonché condotta direttamente dall’originale tibetano – di un testo fondamentale per la spiritualità, la Vita di Milarepa redatta da Tsang nyön Heruka. Questa gemma dell’editoria la si deve alla cura certosina di Carla Gianotti: con il suo robusto apparato di note e appendici, raggiunge un felice connubio di alta divulgazione e precisione scientifica. Il drammatico
arco narrativo di Milarepa ha irresistibilmente sedotto alla vita ascetica generazioni di tibetani, per poi conquistare anche i cuori di molti giovani occidentali
Perché quella di Milarepa è la storia di una redenzione, di una seconda possibilità. E dio solo sa quanta sete abbiamo di seconde possibilità.

Tutto ha inizio a metà dell’XI secolo: un bambino rimane orfano del padre ad appena sette anni. La madre deve subire i soprusi dei cognati, che le sottraggono tutti i beni: madre e figlio finiscono così per fare i servi. La donna ne sviluppa un tale odio che manda il figlioletto a studiare magia nera e poterla vendicare.
L’adolescente Mila è un ottimo studente, e con le sue arti fa crollare la casa dello zio durante una festa di matrimonio, uccidendo una trentina di persone. Solo allora capisce l’orrore dell’odio, entra in crisi spirituale e cerca un maestro che possa incanalare il suo potere verso il bene. Finisce cosi a studiare con il lama
Marpa: non un santo assorto nelle sue meditazioni, ma un agricoltore che suda sul suo campo, esagera con l’alcol e facile all’ira. Marpa per ben sei anni lo tratta come una pezza da piedi. Lo fa accampare nei suoi terreni ma non gli impartisce alcun insegnamento, anzi gli ordina di costruire una torre di nove piani, e ogni volta che Mila finisce il lavoro, gliela fa buttare giù e ricostruire. Geniale contrappasso per chi — consumato dall’odio — aveva distrutto una casa e i suoi abitanti.

Milarepa dovrà costruire in successione quattro torri: rotonda a est, a mezzaluna a occidente, una triangolare a nord e infine una quadrata a sud. Il lettore
fiuta subito il carattere simbolico di queste torri: in gioco c’è la ricostruzione di un mondo. Infatti, secondo la geografia cosmologica buddhista, la Terra è costituita da quattro grandi continenti di forma guardacaso quadrata, a mezzaluna, rotonda e triangolare. Alla fine Marpa, colpito dall’abnegazione di Mila,
inizia a insegnargli la via della meditazione per un anno tra le grotte in alta montagna, e gli rivela il potere del fuoco interiore, che consente di non usare
vesti di lana: da quel giorno gli fu dato il soprannome di re-pa («vestito di tela»).

Ed ecco composto il nome con cui entra nella storia: Milarepa.
Eremita recluso tra le montagne, ha un’esperienza mistica, un’intuizione immediata e profonda: visualizza quelle che il folklore ha sempre ritenuto esseri mostruosi dei boschi, le Dakini, che si nutrono di carne umana, come creature che con il loro canto inneggiano alla meditazione. Insomma anche aspetti ritenuti terrifici, orrendi, sono forme di Buddha. E raggiunge l’illuminazione.
Molta gente iniziò a cercarlo per ascoltare i sublimi canti per mezzo dei quali esprimeva la sua realizzazione: perché Milarepa invece che predicare, prestava ascolto alla natura attorno a sé e cantava.
Come non amarlo?
Morì a 84 anni nel quattordicesimo giorno dell’ultimo dei tre mesi invernali dell’anno della Lepre di Bosco, all’alba.
Era il 1135 d.C.

Molti i meriti dell’edizione di Gianotti: in primo luogo, l’aver rimesso l’autore al centro, oltre al protagonista. A mettere per iscritto la vita di Milarepa nel 1488 fu Heruka, detto «Tsang nyön», e cioè il «folle» dello Tsang, la regione occidentale del Tibet.
Perché folle? Nel corso del XV secolo si andò sviluppando in Tibet il fenomeno dei nyönpa («folli»), anticonformisti, ispirati pazzi di Dio, ma soprattutto oppositori della figura del monaco studioso così diffuso nelle grandi università monastiche tibetane. Insomma Heruka plasma e cambia i contorni di Milarepa secondo i suoi bisogni. Non fu il primo a occuparsi di Milarepa, ma apporto una serie di innovazioni folgoranti. Una su tutte, impiegò la prima persona singola-
re, spacciò cioè una biografia per un’autobiografia; e la morsa del racconto si fece coinvolgente, ineludibile. Con una grande attenzione per le figure femminili, come la pietosa moglie del severissimo maestro.
Poi Heruka rappresento Milarepa non come nato-già-Buddha, che era la rappresentazione consueta, ma come un essere che aveva sbagliato, e molto, ma che ce la mise tutta per riscattarsi. «Perseveranza» in tibetano suona nying ru, e cioè l’«osso del cuore». Di osso nel cuore Milarepa ne ebbe parecchio, e grazie a quest’innovazione diventa più simpatico a qualunque lettore: è una persona che ha sbagliato, come tutti noi.

Più di ottocento anni dopo, il fascino di Milarepa e delle sue ordalie sedusse anche il cinema: nel 1974, Liliana Cavani ne trasse un film, con Paolo Bonacelli e
Marisa Fabbri, che andò anche in concorso a Cannes. La regista di Carpi aveva capito l’importanza dei livelli temporali nella struttura di Heruka, complice la sceneggiatura di Italo Moscati. Come Heruka manipolò lo spazio, girando in Abruzzo per rappresentare il Tibet, seguendo un consiglio di Fosco Maraini; e manipolò il tempo, iniziando dagli anni Settanta: uno studente accompagna il proprio relatore di tesi e la moglie in un viaggio.
Vengono coinvolti in un incidente d’auto, che proietta lo studente nel Tibet del XII secolo: lui fu Milarepa, e lo shock di quasi-morte gli ha fatto ricordare la vita precedente.

Il film colpisce ancora oggi, con quell’incanto leggero di inquadrature ieratiche ma visivamente poderose, dove a essere magici non sono gli effetti speciali ma i movimenti della macchina da presa e gli attori. Un altro cinema. Pecca-to, era bello. Non possiamo che aspettare che la Gianotti voglia tradurre anche I centomila canti, la seconda ala del dittico che Heruka il folle dedicò a Milarepa e in cui raccolse le sue poesie. Per imparare da lui a saper ascoltare il mondo attorno a noi, anche quando è buio.

IL SOLE 24 ORE – DOMENICA
29 Giugno 2025

MILAREPA E IL NESSO FRA OBBEDIENZA E RICOMPENSA
Buddhismo Tibetano
di Giuliano Boccali

A quasi venticinque anni di distanza dalla prima (Utet, 2001), Carocci pubblica una nuova edizione della Vita di Milarepa che la curatrice, Carla Gianotti, straordinariamente arricchisce negli apparati critici e nell’introduzione. Con quasi 60 pagine ben scandite e di scrittura gradevole, unitamente alle appendici vengono offerti elementi preziosi, aggiornatissimi culturalmente, sia per collocare l’opera dai punti di vista letterario, storico e religioso, sia per evocarne il molteplice tesoro di valenze spirituali.
Innanzi tutto, le edizioni precedenti in italiano della Vita sono state rese dalle versioni francese a inglese, a differenza di quella di Gianotti che è tradotta dall’originale tibetano ed è pure l’unica completa; quanto all’autore, Tsang nyön Heruka (1450-1507), “Heruka il Folle di Tsang”, certo è stato “folle” e visionario nella vita spirituale, ma capace di strategie letterarie raffinate, come la cornice che inquadra la biografia e l’uso della prima persona: si figura infatti che Milarepa narri la propria vita al discepolo prediletto Rechungpa.
Il comportamento controcorrente caratterizza anche il protagonista, come Gianotti mostra in diversi innovativi punti di rilievo della sua introduzione. Quanto ai fatti, la biografia di Milarepa (1040-1123), appare piuttosto scarna. Nato nel Tibet sud-occidentale in una famiglia buddhista ricca e influente, alla morte precoce del padre conosce la miseria e la servitù per la malvagità dei parenti che depredano i superstiti delle tenute e dei beni. La madre pretende vendetta e istiga Milarepa all’acquisto dei poteri magici; l’opera riesce fin troppo bene: la dimora dello zio responsabile della rovina crollerà durante la festa nuziale del suo primogenito seppellendo cinque parenti, mentre la grandine devasterà le terre dei valligiani colpevoli di non avere difeso i diritti della famiglia di Milarepa.
Il rimorso non tarda però a farsi sentire: perseguitato dall’orrore per l’atrocità commessa, Milarepa cerca un maestro al quale affidarsi e lo ravvisa nel lama Marpa, storicamente notissimo come “il Traduttore” (1012-1096). Inizia qui la sua attesa dell’ammaestramento che Marpa, beffardo e apparentemente infido, continuamente rinvia subordinandone la concessione al superamento di prove ulteriori che risultano sempre insufficienti per quanto ai margini di ogni resistenza fisica e psicologica. Perfino la costruzione e l’immediato comando della distruzione di quattro torri (esemplare sul piano simbolico del processo iniziatico) non sembra meritare al nuovo discepolo il sospirato insegnamento, profuso invece a tutti gli altri. Solo quando Milarepa, stremato, disperato ma pur sempre devotissimo al maestro, è sul punto di rinunciare e di uccidersi, Marpa gli accordale agognate istruzioni. Traluce qui uno dei significati più profondi e attuali della biografia: l’implacabile opera educativa di Marpa attacca frontalmente il nesso obbedienza-ricompensa, cioè più in generale causa-effetto, negando al discepolo il premio dell’ammaestramento che pure gli viene ogni volta pro-messo. Spezza in questo modo il principio di causalità che, se utilissimo nella vita pratica, rappresenta in quella affettiva e soprattutto spirituale un’autentica prigione e prelude così alla libertà sconfinata di Milarepa.
Dopo un periodo di ricerca accanto a Marpa, ispirato da uno dei sogni che costellano i momenti alti della Vita, questi lascia l’eremo del maestro per tornare alla sua valle. Qui, la rovina della casa di un tempo lo colpisce come l’immagine della fatale impermanenza della manifestazione: decide allora di isolarsi fra le montagne per attingere il “risveglio”, l’illuminazione, e riversarne poi l’esperienza nel suo insegnamento liberatore.
Fra i diversi aspetti significativi della storia, risalta innanzi tutto la perseveranza di Milarepa, chiamata in tibetano con la bellissima metafora di “osso del cuore”: sia nel resistere alle prove quasi inumane che gli impone l’inflessi-bile Marpa, sia nei circa quarant’anni trascorsi poi in solitudine fra impervie montagne, cibandosi solo di ortiche, per meditare fino a conquistarsi lo stato di Buddha (“Risvegliato”) in una sola vita.
L’aspetto più sorprendente di questa perseveranza – e illuminante rispetto alle nostre idee al riguardo spesso, credo, piuttosto faticose se non deprimenti – è che questa attitudine è modellata dalla gioia del compito prefissato. Nell’itinerario spirituale buddhista, infatti, la perseveranza è concepita e vissuta come impregnata dall’entusiasmo! Analogamente la “rinuncia” alle condizioni e prassi mondane necessaria per estinguere il ciclo doloroso e insensato delle rinascite e ri-morti è espressa con un vocabolo tibetano che non punta sul distacco, sull'”astenersi da…”, ma su un’attitudine di segno del tutto positivo, su un’aspirazio-ne serena e perfino “entusiastica” che favorisce l’avanzamento nella pratica e lo sigilla.
Un altro fra i molti temi della biografia sottolineati da Gianotti è quello delle due presenze femminili fondamentali nella vita di Milarepa. Anche qui, con tacita ma studiata strategia narrativa, Heruka contrappone alla madre ossessionata dalla sete di vendetta, e quindi fautrice spietata della perdizione del figlio, la figura di Dakmema, la sposa devota di Marpa, che non abbandona mai Milarepa nutrendolo, curandolo dalle ferite, confortandolo, come madre spirituale che, anche rischiando personalmente, lo sostiene con dolcezza amorevole nel suo arduo itinerario interiore.